Con l’insediamento del governo Meloni si è riaccesa la discussione sull’interruzione volontaria di gravidanza e sulla 194/1978, la norma che ne regola l’accesso; molti hanno parlato di attacco al diritto all’aborto. Ma in Italia l’aborto, piaccia o no, non è un diritto. Chi sostiene che lo sia non dovrebbe limitarsi a difendere la 194, o concentrarsi solo sulle difficoltà di accesso alla pratica, ma pretendere il superamento di questa legge.
Giorgia Meloni ha parlato di interruzione volontaria di gravidanza già nel corso della campagna elettorale, dichiarando di non avere intenzione né di abolire né di modificare la 194, ma di voler attuare maggiormente le parti sulla tutela sociale della maternità. Lo ha fatto, soprattutto, per evitare le critiche di chi sosteneva che un governo a trazione Fratelli d’Italia avrebbe cavalcato la recente tendenza antiabortista, che va dalle restrizioni di accesso in Polonia fino all’eclatante annullamento della Roe vs Wade, sentenza della Corte suprema statunitense che garantiva il diritto all’aborto a livello federale.
Tuttavia, dopo la proposta di legge per il riconoscimento della capacità giuridica del feto sin dal concepimento da parte di Maurizio Gasparri e la nomina dell’ultraconservatrice Eugenia Roccella al Ministero per la Famiglia, Natalità e le Pari Opportunità, molti hanno paventato un pericolo per la 194 e il “diritto all’aborto”. Generalmente, nel dibattito pubblico si discute di questa pratica proprio nei termini di un diritto – “se c’è una legge, c’è un diritto” scriveva qualche giorno fa sul Foglio Annalisa Benini, in un’intervista alla Ministra Rocella –. Va da sé che venga rivolta molta attenzione alle difficoltà di accesso alla pratica: in Italia il 64,6% dei ginecologi è obiettore di coscienza (Min. Salute), tasso che supera l’80% in ben 5 regioni, tra cui primeggia la Provincia Autonoma di Bolzano con l’84,5%; inoltre, in alcune strutture ospedaliere gli obiettori sono addirittura il 100% (Ass. Coscioni).
L’utilizzo dell’espressione “diritto all’aborto” in relazione alla 194 tradisce, però, un’imprecisione sostanziale. A ben vedere, in Italia questo diritto non è garantito e per dire ciò non mi sto riferendo agli ostacoli che impediscono un’effettiva attuazione della norma; il punto è concettuale, ma non per questo meno importante.
Nella legge 194 non ci si riferisce mai all’interruzione volontaria di gravidanza come a qualcosa per cui la donna può vantare una legittima pretesa; è invece previsto l’accesso – considerando i primi novanta giorni – solo in “circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la […] salute fisica o psichica” della donna. In questo modo la 194 permette sì di richiedere l’accesso all’aborto, ma esso è consentito solo quando costituisce una seria minaccia per la salute. La volontà di interrompere una gravidanza indesiderata sembra quindi ricadere non tanto nel diritto all’aborto tout court, bensì nel più ampio diritto alla salute.
Tale aspetto solleva almeno due questioni molto rilevanti. La prima è che la norma non permetterebbe – perlomeno formalmente (ma la forma conta!) – di richiedere l’interruzione della gravidanza per ragioni che esulano dalla salute della donna e che comprendono, ad esempio, le sue preferenze e i suoi piani di vita. È vero che, sempre per quanto riguarda il primo trimestre, la 194 specifica che lo stato di salute è da considerarsi in relazione a condizioni economiche, sociali o familiari, ampliando così le ragioni per accedere alla pratica; ma questo non fa altro che aprire la porta alla seconda importante questione, ovvero l’estensione quasi illimitata del concetto di salute. Tutto diventa salute. Così facendo si rischia di delegittimare scelte personali – come quella di non volere un figlio in un determinato momento della propria vita – facendole passare per scelte di salute. L’aborto assume dei connotati medici non solo nelle procedure, ma anche e soprattutto nelle ragioni per cui vi si ricorre. In quest’ottica è facile capire perché la legge prevede anche che il medico diventi colui che non solo valuta gli aspetti sanitari legati alla procedura abortiva, ma che valuta – insieme alla donna – addirittura le circostanze che determinano la richiesta. Questa “medicalizzazione” dell’aborto sottende un elemento di forte controllo sulla donna che sembra incompatibile con l’esercizio di un diritto. Un’ingerenza che si estende fino all’invito del medico nei confronti della donna, e richiesto per legge, a soprassedere per sette giorni prima di procedere con l’interruzione della gravidanza.
In Italia, dunque, sebbene ci sia una legge, non c’è un diritto all’aborto; perlomeno non nei termini della Roe vs Wade, secondo la quale nel primo trimestre l’interruzione della gravidanza poteva essere richiesta per qualsiasi ragione senza le restrizioni formali della nostra legge.
Va certamente ricordato che la 194 rappresenta un grande traguardo per l’emancipazione femminile ed è il frutto di un compromesso tra diverse parti politiche che tentarono di tenere insieme l’interesse della donna, il valore sociale della maternità e la tutela la vita umana dal suo inizio in un preciso contesto storico. Ma questa impostazione fa scivolare le scelte procreative nel solo dominio della salute, con il serio rischio di squalificare alcune preferenze di vita delle donne e al tempo stesso promuovere un vero e proprio controllo sanitario delle ragioni per richiedere l’interruzione della gravidanza.
Alla luce di ciò, chiunque voglia intendere l’aborto come una legittima pretesa, come un diritto, allora dovrebbe riconoscere che la 194 non va in questa direzione e che è necessario muovere dei passi positivi verso il suo superamento nell’ottica di una maggior promozione dell’autodeterminazione della donna.
Molti potrebbero affermare che questa riflessione è soltanto un astratto gioco di parole e quello che conta è l’effettiva possibilità di abortire, cosa che in alcune aree geografiche è oggi tutt’altro che semplice. Ma le parole sono importanti, informano la nostra cultura, il nostro modo di pensare e agire, soprattutto se contenute nelle leggi a cui siamo soggetti; Eugène Ionesco una volta disse addirittura che “solo le parole contano. Il resto sono chiacchiere”.
Pubblicato su Il T Quotidiano il 14 novembre 2022